Un lutto personale
AArrivederci, signora Cardinale
La carriera di Claudia Cardinale è stata straordinaria, grande, forse leggermente sfortunata, e la sua morte lascia un vuoto immenso. Ho incontrato la signora Cardinale una sola volta, quando mi dedicavo di più al cinema e meno alla scuola. All’epoca scrivevo per un giornale molto interessante, “Tidningen Kulturen”, e ci lavoravo grazie a Guido Zeccola, un ottimo pubblicista napoletano trapiantato in Svezia.
In quel luogo assurdo e anche abbastanza inutile che è il Filmhuset di Stoccolma, nel lussuoso cinema — l’unico, tra quelli della struttura, che valga ancora la pena frequentare — intitolato al fotografo Julius Jansson, l’ho incontrata. Fin dall’inizio fui colpito da quanto questa persona fosse cordiale, simpatica, fisica e piena di energia, anche se fumava parecchio. Capì che, per tutta la sua carriera, fosse soprattutto capace di portare sullo schermo, con estrema padronanza tecnica, la sua simpatia e la sua carica vitale.
Il paragone più simpatico, e soprattutto più azzeccato, che si fece fu quello con un’altra grande icona moderna di quel periodo particolarmente felice — anche se ricco di ombre — compreso tra gli anni Cinquanta e Settanta, quando l’Europa si ricostruì, creò nuove strutture e si preparò a diventare la società super-tecnologica e super-individualista in cui viviamo oggi. Un’epoca di donne estremamente femminili, belle, spigliate e spesso costrette in ruoli che stavano loro stretti.
Ricordo il primo esempio in un film difficile per lei, dove ebbe l’aiuto del grande Totò, o meglio di quell’uomo estremamente signorile e complesso che fu Antonio De Curtis: “I soliti ignoti”. Interpretava la sorellina, appena arrivata dalla Sicilia, di Tiburio Murgia — un grandissimo attore in tutto — e la fidanzatina dell’orfano Renato Salvatori. “I soliti ignoti” è un film comico ma non una semplice commedia, e il suo ruolo è, per me, stupendo, come lei stessa ricordava con un sorriso.
Tra l’altro, se è vero che Claudia Cardinale avesse origini siciliane, la sua cultura e formazione erano francesi, cresciute in una Tunisia estremamente cosmopolita. Chi la scoprì fu Luchino Visconti, in ruoli diversissimi: fu definito talvolta un suo Pigmalione, ma in realtà il suo merito fu quello di riuscire a metterla nei ruoli giusti. Da quello minimo — ma per me l’unico davvero positivo — in “Rocco e i suoi fratelli” a quello bellissimo e poetico ne “Il Gattopardo”, dove regalò al cinema uno dei valzer più celebri, pur offrendo un’interpretazione forse un po’ semplicistica del romanzo originale, del quale Visconti tagliò la parte finale. Fino al difficilissimo “Vaghe stelle dell’Orsa”.
In quel film, ambientato in un mondo intellettuale incomunicabile, Cardinale interpreta una donna che vive in un ambiente decadente, segnato da una delle più grandi sconfitte dell’umanità: l’Olocausto. Il tema dell’incesto, il contrasto tra classicismo e modernità, l’ambiguità dei legami rendono questo, secondo me, uno dei film più difficili ma anche più affascinanti della storia del cinema italiano.
Dopo questo, arrivò l’esperienza in un film geniale come “8 e mezzo”, dove fu davvero straordinaria, e poi i tre incontri fondamentali con Sergio Leone, Pasquale Squitieri e Werner Herzog.
Il primo fu in un film che, secondo me, mostrò tutta la forza del cinema italiano ed europeo: “C’era una volta il West”. Il film è un’avventura, ma anche una critica al capitalismo senza freni e alla commercializzazione. Il ruolo della ex prostituta di New Orleans è interessante perché il personaggio riesce a barcamenarsi tra figure fortissime: Harmonica, il pistolero silenzioso interpretato da Charles Bronson; Cheyenne, il bandito; e soprattutto la presenza inquietante, ma verissima, del personaggio interpretato da Henry Fonda. Da notare che la scena d’intimità tra Fonda e la Cardinale fu l’unica che Fonda abbia girato nella sua lunga carriera hollywoodiana.
Un ruolo simile, anche se meno truccato, è quello di Molly, la fidanzata di un certo Arthur Fitzgerald, in un film magnifico. E soprattutto il ruolo della Cardinale è quello dell’unica persona “civile”, simpatica e lucida nella mente di un folle: uno dei pochi ruoli quasi “positivi” di Klaus Kinski. Tra l’altro, lei fu l’unica persona a non avere alcun problema con Kinski.
In questo periodo, che è sicuramente quello d’oro per la Cardinale, abbiamo anche un film stupendo della ditta Luigi Magni – Giorgia Missori, “Nell’anno del Signore”. Alla fine degli anni Sessanta, Magni porta in scena la tragica morte di Targhini e Montanari in un affresco con i migliori attori italiani dell’epoca: dal granitico Nino Manfredi nei panni del calzolaio Pasquino, al “cattivo” sofisticato e mondano cardinale Rivarola (Ugo Tognazzi), a Targhini interpretato da Jean Sorel e al giovane Montanari incarnato da un bravissimo Renaud Verley. Un film dove la Cardinale, nei panni di Giuditta, una donna che si arrabatta in un mondo maschilista e difficile, ricorda molto un altro delizioso film di Luigi Zampa: “Bello, onesto, emigrato Australia sposerebbe compaesana illibata” del 1971. Un film stupendo, intelligente e mai volgare.
Ma per me, i ruoli dove la Cardinale diede il meglio, perché scritti per lei e per il suo talento, furono quelli di Pasquale Squitieri. Questo personaggio vulcanico e discusso realizzò uno dei più bei film in assoluto sulla mafia: “Il prefetto di ferro”, che resta il miglior ruolo di Giuliano Gemma, attore incredibile, in un film aspro, amaro e spettacolare. La crociata del prefetto Cesare Mori, in una Sicilia cupa, crudele e molto meno folkloristica di quella del Padrino, è lo sfondo per riflessioni profonde sul bene e sul male.
Vorrei anche ricordare la saga comica e divertente della Pantera Rosa e un film quasi impensabile come “La tenda rossa” di Mikhail Kalatozov, regista sovietico che seppe reggere il confronto con due giganti hollywoodiani come Sean Connery e Peter Finch.
Una grande perdita. Ma per fortuna restano i suoi film: bellissimi, luminosi, interpretati da un’attrice splendida e monumentale per bravura.
Robert Fogelberg Rota